parole da brividi

"Ho 38 anni, sono vedova con tre bimbi piccoli: dovete salvarmi"

La toccante testimonianza di una mamma di Bergamo che ha contratto il coronavirus. Ecco cosa succede realmente nei reparti degli ospedali della straziata provincia lombarda.

"Ho 38 anni, sono vedova con tre bimbi piccoli: dovete salvarmi"
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Una testimonianza da brividi quanto emblematica. Che racconta con straordinaria chiarezza e immediatezza il dramma che può trovarsi a vivere una persona anche giovane, di fronte al Covid-19. E che fa capire con un realismo impressionante cosa sta accadendo davvero negli ospedali di Bergamo. Una storia di sofferenza vissuta e narrata in prima persona e resa ancor più acuta dalle particolari condizioni di una mamma con tre figli piccoli ai quali un’altra malattia ha strappato solo pochi anni fa il padre. La lettera è arrivata alla redazione del nostro quotidiano online Prima Bergamo: alla fine la nostra lettrice ce l’ha fatta, ma purtroppo non è ancora finita per il capoluogo orobico, attorno al quale si stringe l’abbraccio ideale di tutto il Paese al grido di #bergamomolamia. (in apertura il video di “Rinascerò rinascerai”, la canzone per Bergamo dei Pooh Roby Facchinetti e Stefano D’Orazio i cui diritti saranno devoluti all’ospedale cittadino Papa Giovanni XXIII).

Ai medici: “Ho tre figli piccoli che hanno perso il padre: salvatemi”

Sono una donna di 38 anni, vedova da quattro e con tre bimbi piccoli da crescere.

Si sente parlare di Coronavirus, il Covid-19 che ha colpito la Cina. «Troppo lontana da qui per contagiarci», mi ripeto cercando di mantenere un’apparente positività. Ma un po’ di pensieri e paura iniziano a farsi largo dentro di me.

I tg annunciano la notizia del primo contagio in Italia, a Codogno. Meno serena di prima continuo egoisticamente a ragionare sulla fortuna della distanza che separa Bergamo da Codogno.

Poi la notizia dei primi contagi di Alzano Lombardo in provincia di Bergamo, dietro casa mia.

Il 26 febbraio mi sveglio con la febbre, erano quattro anni che non mi ammalavo. Proprio ora! Chiamo il numero verde e vengo invitata ad allontanarmi subito dai miei figli. Sono afona, non sento i sapori e gli odori, mi bruciano gli occhi, ho mal di testa e mi sento assente. Ho la febbre da due settimane ma il medico dice che la saturazione dell’ossigeno nel sangue è buona e mi prescrive l’antibiotico.

È il 3 di marzo, non riesco a respirare correttamente, mi manca il fiato e chiamo il 112.

Mi trasportano a Ponte San Pietro, il mio primo girone dell’inferno. Tutta la notte sdraiata sopra una barella, al freddo, parcheggiata in un corridoio in mezzo a gente ammalata come me. Risuonano solo i colpi di tosse e le lamentele per la paura. Nessuno che si è curato di me, mi ha chiesto se avessi sete o dovessi andare in bagno. Il personale non è preparato, non immaginavano un così grande afflusso di gente, non comprendono ancora cosa stia accadendo.

Vengo dimessa, debilitata da due settimane di febbre, una notte difficile e con i polsi doloranti per la flebo. Prognosi di cinque giorni, mi dicono bronchite in corso.

Dopo un paio di giorni la febbre sale a 39.7. Il medico dice di aspettare che l’antibiotico faccia effetto ma ad ogni attacco di tosse entra meno aria, mi sembra di soffocare. Un amico in visita, molto preoccupato, chiama il 112. Ho paura, non voglio tornare in ospedale ma non respiro, vomito, piango.

Entro al pronto soccorso dell’ospedale di Bergamo, qui sono un’eccellenza penso, mi guariranno. Provati i parametri mi portano via dal Triage in tempo zero. Flebo, ossigeno, prelievi, esame delle urine, emogas e Rx per concludere con il tampone. Sono il numero 425. Nel caos di medici e infermieri si avvicina il dottore che mi dice: «È Coronavirus».

Scoppio a piangere: «Ho tre figli piccoli che hanno perso il padre – gli dico -, salvatemi».

È l’8 marzo e vengo ricoverata in Pneumologia. Ho una mascherina di ossigeno ma l’apporto d’aria che mi dà non è abbastanza. Finisco nella Cpap, quel casco stile “Minions”. Mi dicono che ho gli alveoli pieni d’acqua e questa è l’unica soluzione che può salvarmi per ora. Mi stringe al collo, mi sento strozzata, l’ansia mi fa salire la sensazione d’esser sepolta viva. Assumo Lexotan per rilassarmi. Dentro il casco la sensazione è pazzesca. Un rumore continuo, una ventola nelle orecchie che introduce ossigeno da destra e scarica anidride carbonica a sinistra. Non capisco cosa mi dicono e non posso nemmeno leggere il labiale perché sono tutti con le mascherine. Tv, telefonate, tutto inutile. Sono sola con me stessa, le mie paure e i miei pensieri.

Sono giorni che non posso alzarmi dal letto, né per lavarmi né per scaricarmi. Mi lavano loro e mi scarico in una padella. Le siringhe per l’esame dell’Emogas arterioso sono rapide ma dolorose, l’eparina in pancia, i continui prelievi di sangue e l’ago delle flebo che continua a cadere. Sopporto tutto, devo uscirne il prima possibile.

Non conto più i giorni. Ricoverano papà e anche mamma. Il mio amico si prende in carico i miei figli. Nel frattempo arrivano continue notizie di decessi, parenti, amici, parenti degli amici e il pensiero si aggrappa all’ipotesi che il virus sia più clemente nei riguardi delle donne e dei giovani. Ho 38 anni, mi ripeto, sono giovane. Prego Dio, lo faccio intensamente, ho paura ma non posso mollare.

Il personale dell’ospedale è gente pazzesca, corrono avanti e indietro, fanno una fatica immensa e ci fanno sentire come una grande famiglia. Sono una donna positiva e loro mi danno un motivo per continuare ad esserlo.

Finalmente arriva il mio rianimatore. Lui è uno tosto, mi distrae, mi tranquillizza, mi fa sorridere.

«Facciamo un patto?» mi chiede.

«In questo momento lo farei anche con il diavolo», gli rispondo.

«Ti levo il casco, controlliamo i parametri, finisco il giro del corridoio e torno. Se va tutto bene lo togliamo definitivamente».

Procediamo lentamente, le cinghie per tenere il casco girano sotto le ascelle e lasciano la pelle segnata. Sento un dolore come se avessi dei tagli, dei lividi. Sono fuori, le lacrime scendono senza che possa controllarle. Forse l’incubo è finito.

Chiamo i miei bimbi, li tranquillizzo. Non hanno mai visto il loro papà uscire dall’ospedale, immaginate cosa hanno provato sapendomi ricoverata. Il timore non è però cessato. Mamma e papà sono ancora ricoverati.

Mentre cambiano le lenzuola mi siedo di fianco alla signora del letto vicino. Ha 72 anni, è sola come me, ha paura di non rivedere figli e nipoti. Piange dignitosamente nel suo casco, in silenzio, senza arrecare alcun disturbo, senza lamentarsi. Le prendo la mano, ci supportiamo a vicenda con fragili sorrisi e deboli carezze. Eravamo le preferite del reparto, mai un lamento.

La saturazione scende, mangio seduta tra l’entusiasmo di medici e infermieri per il miglioramento che ho avuto. È un successo, sono tutti al settimo cielo. Distrutta dai pochi passi mossi torno nel letto e mi riaddormento.

Al risveglio trovo una lettera. L’infermiera del turno precedente mi ringrazia per aver supportato la mia vicina di letto. Piango commossa. L’ospedale è un mondo parallelo. Qui dentro siamo diventati come una famiglia, ci supportiamo per non sentirci soli, lottiamo insieme. Lo smartphone è pieno di messaggi di amici che ti supportano e io mi attacco a ognuno per reagire, per farmi forza e sopportare la devastazione fisica e mentale che sto vivendo.

Nei giorni successivi mi diminuiscono sempre più l’apporto esterno di ossigeno, le forze pian piano tornano e la percezione di quello che accade intorno a me inizia a farsi sentire di più. Senza la ventola del casco nell’orecchio ora percepisco chiaramente le urla dei pazienti in panico che si strappano le flebo e tutto ciò a cui sono attaccati, i lamenti di dolore, qualsiasi rumore che testimonia la sofferenza. È surreale.

Il personale medico è in continuo movimento. Rimangono dentro le divise bardati con mascherine senza potersi cambiare tutto il giorno. Levare la divisa o la mascherina vorrebbe dire doverle gettare e metterne altre. Ma non ce ne sono abbastanza e quindi sino a fine turno non possono bere, mangiare o andare in bagno.

È il 21 marzo, la pressione è bassa ma i parametri sono buoni. Devo essere dimessa anche se ancora positiva. I posti sono limitati e devo fare spazio a chi sta peggio. Saluto la mia compagna di stanza. Mi dispiace lasciarla sola. Torno a casa, torno dai miei figli. Anche papà e mamma stanno meglio. Nel corridoio vengo supportata dalla soddisfazione degli infermieri e dei medici. Esco dal reparto.

L’ospedale è grandissimo ed è deserto. Mi sento piccolissima. Proseguo lentamente un passo alla volta e raggiungo la statua di Papa Giovanni XXIII. Faccio fatica a stare in piedi ma rimango ferma lì davanti e prego. Prego per i malati, prego per i morti, prego per tutti quelli che stanno soffrendo. Ringrazio nostro Signore e recito l’eterno riposo. Piango, sono finalmente fuori di qui.

Casa. Il mio amico si è rivelato risorsa incredibile. È lui che mi ha portato a casa, ha curato i miei figli e oggi ci supporta mentre ancora positiva al virus resto chiusa in camera. Ho un po’ di paura per questo ma cerco di tenere alto il morale. Sembra che il peggio sia passato.

Oggi respiro a pieni polmoni un’aria nuova, quasi mai goduta, ripenso a quanto ho vissuto, alla paura di lasciare i miei figli, alla paura di non farcela ed è inevitabile piangere.

Dobbiamo rispettare le poche regole che ci vengono richieste, facendo così evitiamo il rischio di contrarre la malattia. Facendo così rispettiamo il lavoro senza sosta di medici, infermieri e personale ospedaliero che rischiano di contrarre il virus per salvare gli altri, che lavorano senza sosta, che non vedono le loro famiglie. Facendo così rispettiamo tutte quelle persone costrette a uscire di casa e recarsi al lavoro, quel lavoro che porta gli alimenti nei supermercati, le medicine agli ospedali e farmacie e altri lavori che non possono fermarsi per necessità della macchina che supporta il nostro paese.

Questa non è una semplice influenza. Tutti possiamo essere contagiati e contagiare.

Sono una donna di 38 anni, vedova da quattro e con tre bimbi piccoli da crescere.

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