L'appello di un papà afgano per salvare i figli dai talebani
Lui vive qui con moglie e due bimbi, gli altri tre sono rimasti con la nonna in balia del regime.
Non c’è giorno in cui non pensi ai suoi figli, in balia del regime talebano. Khan Aimal adesso abita a Magenta, ma la sua famiglia è divisa a metà: lui, la moglie e due figli vivono in Italia, mentre gli altri suoi tre figli più grandi sono rimasti in Afghanistan, insieme alla nonna. E ora devono fare i conti con la grave crisi economica e alla svolta liberticida seguite al ritorno dei Talebani, che hanno chiuso le frontiere, spegnendo, al momento, ogni chance di Aimal di riabbracciare in tempi brevi i suoi figli.
Lui si è affidato a Redimec, società specializzata in servizi di traduzione e interpretariato di Settimo Milanese, che aiuta gli stranieri che necessitano di documenti. Un cliente speciale, con una storia travagliata, che ha messo in luce il dramma di un intero popolo, quello afghano, tornato nel buio del regime totalitario, della fine delle libertà e della fame.
La storia
Era il 2010 quando Khan Aimal lasciava la sua terra per venire in Italia. A Milano trovò un lavoro, come aiuto cuoco, e una casa.
«Mi sono subito ben integrato, non ho mai avuto difficoltà nel sentirmi accolto – racconta – Ho vissuto i tanti cambiamenti del mio Paese, le continue occupazioni che l’hanno martoriato, senza contare i duri anni sotto i Talebani, che si sono presentati con una faccia e ne hanno poi mostrata un’altra. Cosa che stanno rifacendo. Con gli Americani la vita è migliorata, ma ora siamo ripiombati nel buio».
Nel 2018, anche la moglie e un figlio lo hanno raggiunto (un secondo è nato qui), mentre per gli altri tre il ricongiungimento non è riuscito al primo colpo e sono rimasti a Kabul con la nonna paterna.
«Ho avanzato diverse richieste di ricongiungimento familiare, ma purtroppo non sono state accettate – continua – Lavoro in un hotel a Milano, come aiuto cuoco, occupazione che svolgo da quando sono arrivato, pagando le tasse e mantenendo la mia famiglia. Abbiamo trovato un piccolo appartamento a Magenta, che ha qualche metro quadro in meno rispetto a quelli previsti dalla legge, data la numerosa famiglia. Stavamo cercando un nuovo appartamento, ma la guerra ha bloccato ogni nostro progetto, spostando esigenze e priorità».
La crisi umanitaria
Mentre Khan Aimal si dava da fare per portare qui i suoi ragazzi e trovare una casa abbastanza grande in cui crescerli, i talebani hanno spazzato via ogni speranza: «Mio figlio continua la scuola, ma le mie bambine non possono più studiare, devono stare a casa senza opportunità per il loro futuro – prosegue – Inoltre, il mancato riconoscimento politico del regime da parte dei Governi e l’isolamento totale del Paese hanno fatto alzare i prezzi dei beni di prima necessità. Un chilo di farina può costare anche 25 euro. Le donne non possono lavorare, i soldi mancano, la povertà aumenta vertiginosamente. Sono preoccupato per la mia famiglia, che riesco a sentire telefonicamente, ma posso fare poco per aiutarli». Aimail ha investito molto nella sua vita in Italia: «Appena arrivato mi son messo a studiare la lingue, mi son dato da fare per lavorare e riunire la mia famiglia. Mia moglie ed io siamo cresciuti sotto i Talebani, lei non ha potuto studiare e questo la penalizza. Ora sta imparando l’italiano, ma per le mie figlie voglio di più. Istruzione (erano iscritte ad una scuola privata), opportunità di un futuro migliore. Ma nel nostro Paesi tutto ciò è loro precluso».
L'appello di un papà afgano per salvare i figli dai talebani
Come spesso succede, la burocrazia ha prevalso sulle esigenze reali, le ha schiacciate e vanificate. In un mondo di carte, timbri e permessi (negati), il diritto di godere di un congruo spazio abitativo è paradossalmente più vincolante del diritto alla pace, alla tranquillità e alla protezione. In Afghanistan, Abdul, Sohaila e la piccola Aisha sono quotidianamente esposti ai rischi della violenza talebana, del tutto incurante dei diritti di donne e bambini.
«In questo terribile momento, la possibilità di ricongiungersi a noi rappresenta per i miei figli l'unico appiglio alla sopravvivenza – conclude, lanciando un appello - Chiedo un aiuto, non economico, ma umano: se conoscete, tramite associazioni o contatti personali, un modo per aiutarci, scrivetemi a questo indirizzo: aimaldidar@gmail.com. Non è mia intenzione aggirare leggi o regolamenti e capisco pienamente le difficoltà che incontrano le istituzioni, cui va il mio ringraziamento per l'incredibile lavoro svolto nel nostro paese. Con questa lettera, però, voglio rivolgermi a tutti, per non lasciare nulla di intentato. Siamo disponibili a raggiungere qualsiasi ambasciata italiana al di fuori dell'Afghanistan, dove potremmo far arrivare i nostri bambini per portarli finalmente con noi in Italia».