Arluno-Vittuone

Molo 13: venti indagati alla sbarra

L’operazione della Dda di Catanzaro ha riguardato il traffico internazionale di droga.

Molo 13: venti indagati alla sbarra
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Compariranno davanti al gup di Catanzaro il prossimo 19 novembre i venti indagati dell’operazione «Molo 13» della Dda del capoluogo calabrese sul traffico di droga internazionale sull’asse Sud America-Europa-Oceania.

Molo 13: venti indagati alla sbarra

Alla sbarra ci sarà anche Francesco Riitano, 41 anni, il presunto broker della cocaina a lungo residente nella frazione di Rogorotto ad Arluno e attualmente in carcere a Siracusa per una condanna a 12 anni in Appello per narcotraffico. Per lui e altri 19 indagati la Procura di Catanzaro ha infatti chiesto il rinvio a giudizio con l’accusa a vario titolo di associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti, aggravata dall’aver agevolato la cosca di ’Ndrangheta dei Gallace di Guardavalle (Cz), attiva anche nel Lazio, in Toscana e in Lombardia.

Accusati tra Arluno e Vittuone

A novembre il gup si esprimerà anche sulle posizioni del vittuonese Benito Andrea Riitano, nipote del presunto broker, e degli arlunesi Nicola Guido e Agazio Andrea Samà, entrambi già condannati con Ciccio Riitano nell’inchiesta «Area 51» della Dda di Milano. Francesco Riitano è ritenuto dagli inquirenti uno degli organizzatori del sodalizio, mentre al nipote Benito Andrea, a Samà e Guido i pm Gratteri-Rizza-Capomolla contestano il ruolo di «partecipi» dell’associazione. Le indagini dell’inchiesta «Molo 13» partirono dal ritrovamento, avvenuto nel maggio 2017 nel porto di Livorno, di un carico di 200 kg di cocaina che i presunti narcos avrebbero dovuto recuperare con una barca a vela, secondo quanto pianificato in un incontro preparatorio avvenuto il 29 aprile 2017 a Vittuone. Il mare mosso complicò però i piani, facendo così perdere gran parte del carico – circa 165 kg di coca – trascinato a riva dalla corrente e ritrovato dalla Capitaneria di porto.
Secondo quanto ricostruito dagli inquirenti, infine, gli indagati avrebbero comunicato fra loro attraverso un sistema di messaggistica criptato e schermato da un server in Costa Rica, sul quale «rimbalzavano» le comunicazioni per non essere intercettate.

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